lunedì 16 giugno 2008

DE CORRUPTA AEDIFICANDI RATIONE ovvero COME PROGETTARE “FALSI” E VIVERE FELICI

Pietro Pagliardini

Questo post è dedicato al blog ARCHITETTURACATANIA che in uno dei suoi post parla di “falso storico” in relazione a quel tipo di architettura che qui si propugna e che ripropone la tradizione e il classicismo come una delle opzioni della modernità.

Qui si parla appunto in difesa del falso in architettura che io considero uno dei principi fondativi della disciplina stessa. E’ perciò un post provocatorio, tra compunzione ed ironia, e proprio per questo intendo iniziare con la foto di uno dei più famosi e apprezzati falsi storici esistenti, il campanile di San Marco che come tutti sanno è stato ricostruito uguale a prima (in questo senso sarebbe falso) dopo che una mattina i veneziani si sono svegliati e il campanile era un ammasso di pietre e mattoni.

Immagino che si pensi che se lo avessero ricostruito in acciaio, tipo Torre Eiffel, o se non lo avessero ricostruito affatto sarebbe sembrato più vero!

Mostrerò però anche “falsi” attuali, impunemente perpetrati da architetti che svolgono la loro professione con successo e con piena soddisfazione dei rispettivi clienti; architetti che studiano i canoni del classicismo e quelli dell’edilizia di base locale, che prima di iniziare un progetto danno un’occhiata intorno, che partecipano ai concorsi sapendo di non avere alcuna speranza di vincere.
Sfortunatamente non è molto facile reperire foto di questo genere di progetti perché non sono troppo rappresentati nel giro dell’editoria specializzata e modaiola, conscia questa del fatto che ciò che non appare non esiste; e invece esiste, eccome, ed è più diffusa di quanto non si creda, e mi riferisco a quella di qualità, non certo ai diffusi scimmiottamenti di archi e colonne grossolanamente sparpagliati nel corpo o fuori dal corpo dell’edificio di cui abbondano le nostre periferie (anche se i nostri amici modernisti dovrebbero porsi il problema che, se questa degli archi è un’esigenza così forte cui si risponde in modo un po’ rozzo, varrebbe la pena riuscire a dare una risposta più colta e corretta, sapendo essi però che non è certo la loro architettura quella capace di soddisfare quel bisogno).

Il giudizio di “falso storico” è uno dei temi ricorrenti nella critica contro l’architettura classica o quella vernacolare e tale giudizio viene, non di rado, brandito come una spada con certo snobistico disprezzo da superiorità antropologica, considerandola una mancanza di pensiero in relazione ad una presunta debolezza “teorica”.

Io credo invece che la realtà sia esattamente opposta nel senso che è proprio una parte consistente della critica “modernista” dell’architettura ad essere priva di elementi teorici fondanti, salvo il logoro e consunto richiamo ad una generica modernità (1), all’aderenza ai “valori della società”, o meglio allo loro assenza (vedi lo Spazio spazzatura di Koolhaas), e all’integrazione tra ricerca architettonica e sviluppo tecnologico (2).

Parlare di falso vuol dire partire inevitabilmente dalle teorie estetiche e dalla teoria del restauro. L’origine del dibattito e le diverse posizioni sono riconducibili a Ruskin e Viollet le Duc, l’uno con la sua intransigente visione di non restaurare i monumenti e lasciarli decadere per farli tornare parte della natura da cui provengono, una concezione frutto di profonde e rispettabili convinzioni personali ma difficilmente praticabile; l’altro con l’introduzione del restauro stilistico che ammette, quando non vi è sicurezza dell’originale, l'aggiunta cercando di interpretare le intenzioni autentiche dell’autore o, addirittura, l'invenzione, cioè il massimo del “falso”.

Ma è la Carta di Atene che istituzionalizza il concetto di falso, stabilendo che laddove vi è la necessità di inserire nuovi elementi, questi dovranno essere chiaramente leggibili, per riconoscerne l’epoca e per non creare, appunto, falsi.

Questa è la teoria che ha dominato il XX secolo e il metodo di lavoro delle Soprintendenze, trasformandola però nel manuale del politically correct dell’architettura, perché, col trascorrere del tempo, questa è trasmigrata, per osmosi, dal restauro al progetto, con la conseguenza che “l’antico” è stato definitivamente fossilizzato e fissato all’epoca di appartenenza e, per analogia con la teoria del restauro, il nuovo si dovrà esprimere con le forme e con i materiali del proprio tempo; così si è determinata la paradossale situazione che tutto ciò che è antico è intoccabile ma, quando si deve intervenire accanto ad edifici antichi o dentro la città storica si ammetterà qualunque cosa, purché “moderna”.

E’ da qui che è nato il luogo comune e il pregiudizio di falso = zotico; invece io affermo che la falsificazione è una qualità fondamentale dell’architettura e ciò in assoluta armonia con la triade Vitruviana e con molte delle teorie estetiche che si sono succedute nel corso delle epoche.

A ben vedere, se l’architettura avesse solo uno scopo prettamente utilitaristico (utilitas) di protezione dell’uomo dagli eventi naturali (3), per assolvere a ciò basterebbe veramente poco: quattro solide mura e un altrettanto solido tetto (firmitas).

Ma non è così e non lo è mai stato, fin dalla storia dell’uomo. Quante e quanto diverse sono state le forme che hanno assunto le case dell’uomo e i loro edifici collettivi dall’inizio della storia! Impossibile e inutile in questa sede elencarle perché è noto a tutti.

Per quale motivo, limitandoci al nostro continente e ad un periodo storico brevissimo nella scala temporale, si è passati dal romanico al gotico? Forse che gli edifici romanici erano poco solidi? Forse che su quelli ci pioveva troppo mentre su quelli gotici assai meno? Evidentemente no.

E allora, se non c’è un principio esclusivamente utilitaristico, qual'è la molla che ha sempre spinto la trasformazione di molti caratteri dell’architettura, della maggiore o minore presenza di ornamento, della differenza, ad esempio, all'interno degli spazi sacri tra l’arte figurativa cristiana e l’astrattismo geometrico dell’Islam?
Le ragioni sono da far risalire a fattori culturali cioè a “quell'insieme complesso che include il sapere, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume, e ogni altra competenza e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società” (E.Tylor).

L’uomo attribuisce alla propria casa un valore simbolico che va ben oltre il mero utilitarismo o l’aspetto patrimoniale e, come scrive Marco Romano, nel costruire la propria casa vi è, a livello individuale, una precisa intenzione estetica. Uguale intenzione la comunità di uomini e donne di una città attribuiva a quegli edifici che avevano carattere collettivo e in cui la civitas riconosceva un “tema collettivo”.

E’ proprio questa valenza estetica collettiva (non quella specialistica riferibile all’architetto) che veniva attribuita agli edifici privati e pubblici, a dare forza al fatto che l’architettura non è solo “l’identificazione più o meno completa della bellezza con la forma costruttiva e con l’esibizione dello scopo” (Rosario Assunto) ma qualcosa di più che non appartiene tanto alle qualità intrinseche dell’edificio ma alla aspettative di chi lo abiterà nei confronti di chi guarderà quell’edificio, cioè del proprietario nei confronti dei cittadini.

L’architettura comunica quelle informazioni che il proprietario, pubblico o privato, ha voluto che esso comunicasse a coloro che vi passeranno davanti: in questo senso, per tutto quanto attiene all’aspetto simbolico dell’architettura è l’apparenza che conta e l’edificio fa mostra di sé anche indipendentemente dalla relazione forma-funzione.

In questo senso una grande parte dell’architettura è falsificazione perché c’è una parte simbolica di essa che costituisce un quid plus rispetto alla triade vitruviana.

La storia dell’architettura è una lunga storia di “falsi” che hanno determinato capolavori assoluti. Si pensi alla cortina di facciate lungo il Canal Grande, a Venezia, che, in moltissimi casi, sono pure scenografie che cambiano completamente aspetto se si gira l’angolo.


Gli edifici, che siano temi individuali o temi collettivi, hanno spesso e intenzionalmente un nobilissimo prospetto principale lungo strada mentre gli altri fronti sono assolutamente ordinari (a meno che non affaccino su una piazza o siano in angolo tra due strade gerarchicamente simili) perché la parte che fa mostra di sé alla città deve avere un aspetto compiuto e rappresentativo della famiglia o della comunità, come in Palazzo Medici Riccardi a Firenze dove il fronte laterale finisce volutamente oltre il corpo dell’edificio ad uso di quinta, mentre nel prospetto posteriore cambia completamente tema e la decorazione scompare.


Analogo atteggiamento si ha per gli stessi interni che cambiano tra la parte pubblica e quella privata, tra il piano nobile e il piano superiore! Si potrebbe obiettare che la gerarchia tra i piani è la rappresentazione di una differenza sociale, dunque forma e funzione coincidono; ma si tratta appunto di funzione non utilitaristica bensì culturale o sociale. Gran parte dell’architettura è dominata da questa funzione culturale e, in questo senso, è falsa, è una codificazione simbolica costruita dall’uomo stesso per soddisfare i propri bisogni interiori così come sono stati trasmessi dalla cultura dell’ambiente in cui vive.

Se questo è vero, se l’architettura non deve assolvere a scopi di semplice efficienza, non ha alcun senso la divisione tra architettura antica e architettura moderna, attribuendo alla prima valore negativo e alla seconda positivo (o viceversa) perché l’uomo è un intreccio complesso di natura e cultura e l’alternativa è tra quell’architettura che soddisfa meglio questo mix complicato e quella che vi si oppone.

Ora non c’è dubbio che, a livello popolare, è il modello “antico” che vince e, in questo senso, coloro che progettano secondo questo modello sarebbero vincenti ma non lo sono per motivi di potere che determinano rapporti di forza totalmente non confrontabili.

Dopo aver mostrato il "falso" campanile di San Marco, visitato da migliaia di turisti ogni anno, adesso mostrerò una serie di altri falsi di colleghi architetti più o meno famosi e qualche falso “autentico”.
Quella che segue è una residenza di circa 4 o 5 anni fa su una collina nelle immediate adiacenze di Arezzo, la mia città, progettato e diretto dall’Architetto Roberto Verdelli di Arezzo.

La struttura portante è in cemento armato e tutto il “vestito” esterno è perciò "falso". Il proprietario però pensa che sia vero perché sa che quando un passante alza gli occhi e guarda la sua casa, esclama all’amico:

“Che bella casa, e come è ristrutturata bene! Certo che i nostri vecchi costruivano meglio di noi…e guarda come sta bene in quella collina! Non sciupa per niente. Chissà quanti soldi sarà costata, ma se li avessi la farei anch’io così”.

Dunque il nostro passante ha colto alcuni aspetti di questo edificio:
- la bellezza
- il riconoscimento di una tipologia tradizionale del posto
- il rispetto del paesaggio
- la ricchezza (o agiatezza) del proprietario
- il riconoscimento del valore assoluto del bene.

C’è da chiedere di più all’architettura?

E pensare che è un falso! Vien quasi voglia di chiamare il Gabibbo!

Quest'altro progetto sono di un architetto di Parma, Andrea Pacciani (cui non ho chiesto autorizzazione e spero non si arrabbi) ed è stato eseguito in collaborazione con il più conosciuto architetto Pier Carlo Bontempi.
Qui il falso si sposta dalla campagna al borgo ma posso commentare poco perché appartengono ad una realtà che non conosco bene, avendola vista solo una volta. Penso tuttavia che l' immagine sia largamente sufficiente ad illustrare l'alta qualità dell'intervento.

Passerò adesso ad un altro colossale falso, anche questo perpetrato nella mia città e nel luogo simbolo di essa: Piazza Grande (o Piazza Vasari). Questo è un falso istituzionale e assolutamente consapevole perché figlio del potere, in particolare del potere fascista, che varò una legge apposta per il “restauro stilistico”. Il Podestà chiamò un bravissimo architetto aretino, Giuseppe Castellucci, e questi, insieme ad altri, ricostruirono, in qualche caso inventarono, tutta una serie di monumenti, tra cui alcuni edifici della piazza, che adesso costituiscono le icone di questa città, che nessun aretino si sognerebbe mai di demolire per ritornare alla condizione precedente, che non sono certamente opere da Storia dell’architettura, rispetto alle tante che invece si trovano nella città, ma hanno il pregio di valorizzare il centro storico.

Infine due parole su un altro tipo di falso: gli outlet vernacolari.

Come molti sanno esiste una catena di outlet che adatta la propria immagine architettonica al luogo in cui si trova, per cui in Toscana vengono usati elementi architettonici del borgo toscano, in Lombardia quelli lombardi, ecc.

Qui il problema si pone in maniera diversa: innanzi tutto occorre dire che la logica urbanistica è esattamente la stessa di qualsiasi altro outlet o ipermercato, cioè lo sprawl, la diffusione nel territorio di strutture specialistiche per la vendita, senza alcuna relazione con la città; ed infatti sono le solite cattedrali nel deserto. Inoltre gli elementi vernacolari sono giustapposti a tipologie edilizie chiaramente diverse da quelle originarie, per cui si presentano con un gigantismo di forme adatte ad edifici con rapporti dimensionali completamente diversi. Insomma l'effetto Disneyland è assolutamente presente. Che però siano i "modernisti" a criticarli è una delle loro tante incoerenze culturali e, mi sia consentito, carenze teoriche, visto che essi amano moltissimo l'architettura-immagine pubblicitaria e questi appartengono esattamente a quel filone.

Tuttavia va detto che, rispetto a centri commerciali analoghi, questi risultano infinitamente più gradevoli e godibili dai consumatori sia per la forma esteriore che per l'effetto borgo che fa diventare meno faticoso il rito dell'acquisto. Non solo, è frequente il caso di visitatori che si informano se le case ai piani superiori (che non ci sono ma sembra che ci siano) siano in vendita.

Anche questo è un sintomo di un bisogno di tradizione, di antico, di appartenenza ai luoghi che l'architettura "modernista" solo raramente riesce ad appagare e che molti architetti "modernisti" si ostinano caparbiamente a negare e ad osteggiare, come se spettasse a loro decidere non solo ciò che è giusto e cò che è sbagliato in architettura ma anche ciò che deve piacere alla gente.


(1) Sulla modernità vedi una citazione di Lucien Steil
(2) Su quest’ultima affermazione sospendo però il giudizio, fino a che non avrò letto il saggio “Tecnica e Architettura” di Emanuele Severino, Raffaello Cortina Editore, € 12,50, ammesso che riesca a capirci quanto basta.
(3) Ovviamente ho fatto una grossa semplificazione perché utilitas è anche aderenza di un edificio allo scopo per cui nasce, cioè ai caratteri distributivi. Ma questo non è un saggio, è un post, e qualche faciloneria bisogna pur ammetterla.

4 commenti:

PEJA ha detto...

E sulla fenice che mi dici?! :)

piliaemmanuele.wordpress.com

Anonimo ha detto...

visto che hai citato la carta di Atene, ti segnalo la carta di Cracovia
http://www.antithesi.info/testi/testo_2.asp?ID=315
Vorrei solo far rilevare che secondo me non è la stessa cosa parlare, come si evincerebbe dall'articolo, di architettura 'che ripropone la tradizione e il classicismo' e di restauro dell'antico, sono due ambiti e due problematiche diverse.
ciao, Vilma

Anonimo ha detto...

Ciò che scrivi è interessante ed ampiamente condivisibile, anche se per portare acqua al tuo mulino leghi trasversalmente ed arbitrariamente il discorso sul falso a quello sul restauro, disciplina sulla quale oggi ci sono teorie e correnti di pensiero abbastanza omogenee che nulla hanno a che fare con la progettazione in stile falso antico ( vedi la carta di Cracovia http://www.antithesi.info/testi/testo_2.asp?ID=315 e scusa l'autocitazione).
Non sono però d'accordo sul fatto che il bisogno di appartenenza ai luoghi di una comunità si leghi necessariamente a quello di antico, e per di più falso antico, e non possa invece essere soddisfatto da una progettazione 'moderna' che elabori in chiave attuale il suo passato sociale e culturale salvaguardandone l'identità e rivisitandolo alla luce dei mutamenti avvenuti nel trascorrere della sua storia. Ritengo sia questa la sfida alla quale devono rispondere gli architetti di oggi.
ciao
vilma

Pietro Pagliardini ha detto...

Mi scuso con chi ha lasciato i tre commenti sopra: ho fatto una gran confusione con la moderazione dei commenti e solo oggi, 28 luglio, mi sono accorto proprio dell'esistenza di questi tre.
A Peja rispondo purtroppo che non posso dirgli niente perchè non ne conosco bene la storia del rifacimento, se non che è stato ricostruito reinterpretando i vecchi stucchi, facendoli di carta-pesta. Ma di qui a giudicare, francamente, mi servirebbe una conoscenza più approfondita.
A Vilma rispondo che non sono affatto d'accordo perchè la teoria del restauro, come credo di spiegare nel post, ha influenzato, eccome, il concetto di falso. Vi sono dei casi, e questo è uno di quelli appunto, in cui tutto si tiene e il passaggio per osmosi da una teoria all'altra è assolutamente naturale.
L'esempio più lampante è quello delle soprintendenze che, ripeto, impediscono, talora giustamente, modificazioni al monumento, ma consentono quasi sempre aggiunte o integrazioni "purchè moderne, per dununciarne proprio l'aggiunta". Se, ad esempio, la teoria del restauro avesse stabilito che sono possibili ricostruzioni, purchè eseguite mettendosi nei panni del progettista del tempo allora stai tranquilla che il concetto di "falso" non avrebbe la stessa connotazione negativa che ha oggi tra i benpensanti dell'architettura.
Saluti
Piero